C’è un momento, spesso impercettibile, in cui smetti di raccontare la tua vita e inizi a viverla davvero. Questa serie nasce da lì — da quel punto preciso in cui Rosa ha deciso che non sarebbe più tornata indietro, nemmeno solo con la testa.
Questi episodi non sono solo racconti di luoghi o lavoretti, ma ritratti di quella giungla emotiva che chiamiamo “andarsene per trovare se stessi” — spesso senza sapere nemmeno chi stiamo cercando.
Rosa potrebbe essere chiunque: una tua amica, una collega, te stessa in un altro anno, o magari proprio adesso. Perché c’è qualcosa di universale nel tentativo disperato (e comico) di trovare un posto che somigli, anche solo un po’, a casa.
Benvenuti nella sua storia.
Rosa D’Amore. In equilibrio tra una vita precaria e letti scomodi
Cronaca di una donna (quasi) adulta in fuga da se stessa e dalle disavventure
CAPITOLO 1

N.B. “Ogni riferimento a persone, cose o fatti realmente esistenti o accaduti è puramente casuale.”
Quando Rosa prese il volo low cost per Londra, aveva due valigie e una convinzione granitica: “Io qui non torno più.”
Napoli si allontanava nel finestrino minuscolo dell’aereo come un ricordo difficile da raccontare. Un gomitolo di strade rotte, promesse mancate, e genitori affettuosi, sì, troppo affettuosi: mamma Concetta che ogni sera le chiedeva se avesse mangiato — anche se vivevano nella stessa casa — e papà Alfredo che le dava del “tesoro mio” con la stessa tenerezza con cui le chiedeva di smettere di sognare.
Rosa sognava, invece. E sognava in grande: un futuro suo, cucito addosso come un vestito fatto su misura, magari un po’ largo, ma sempre meglio della tuta grigia della rassegnazione.
Il bar italiano — pardon, pseudo-italiano — dove iniziò a lavorare si chiamava “Bella Vita”, ma avrebbe dovuto chiamarsi “Dolore Vero”. Il caffè sapeva d’acqua del Tamigi e veniva servito in tazze enormi, tipo secchi per il ghiaccio. La carbonara? Con la panna. E il parmigiano in bustine.
«Rosa, ma che t’aspettavi? Questi vogliono la panna. E noi gliela diamo. Il cliente ha sempre ragione.»
Rosa strinse i denti e pensò che sì, il cliente avrà anche sempre ragione, ma il Dio della cucina italiana li stava sicuramente maledicendo uno per uno.
Ogni sera, a chiusura, toccava a lei buttare la spazzatura. Un rituale diventato epico.
Scopa in mano, colpiva i muri del vicolo sul retro: toc-toc-toc, come una guerriera greca che sfidava il nemico invisibile. Aveva imparato che così i topi si spaventavano e non le correvano tra i piedi. O quasi.
Una volta, però, uno — grasso come un bambino ben nutrito — le attraversò la strada con la disinvoltura di un londinese in giacca e cravatta. Lei urlò:
«Gesù, se m’azzicchi giuro divento carnivora apposta!»
Una collega polacca rise fino a piegarsi in due. «What did you say?!»
«Niente, niente… roba mia.»
Eppure, Rosa non era mai stata così felice.
Aveva poco, sì: una stanza minuscola in una casa condivisa con altre sette anime perse, un frigo con dentro tofu, una lattina di fagioli e un paio di sogni avvolti nella carta stagnola. Ma tutto era suo. Ogni passo, ogni fatica, ogni errore, persino la nostalgia.
E poi c’era quella libertà nuova. Quella che profuma di cose che puoi costruire, sbagliando, ma sempre avanti.
Poi arrivò la Brexit.
Come un altro colpo di scopa, ma stavolta non erano i topi a scappare. Era Rosa a sentirsi improvvisamente fuoriposto.
Documenti da rifare, burocrazia impazzita, clienti sempre più nervosi, e Mario che un giorno le disse, con tono dimesso:
«Rosa, regolarizza al più presto la documentazione, altrimenti non posso tenerti. Mi dispiace.»
Per la prima volta dopo anni, Rosa pensò a Napoli con un pizzico di tenerezza. Ma non per tornare.
Per ricordarsi perché era partita.
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