Cronaca di una donna (quasi) adulta in fuga da se stessa e dalle disavventure
CAPITOLO 2
Dopo mesi di ritorno forzato a Napoli e lavoretti di ogni genere — volantinaggio, baby-sitting, una surreale esperienza come animatrice per feste di adulti — Rosa ricevette una mail dal tono sobrio ma carico di promesse.
“La stiamo cercando per un progetto a Milano. Durata: un mese e mezzo. Retribuzione onesta.”
“Onesta.”
Una parola che non sentiva da tempo, almeno non abbinata a uno stipendio. Rispose sì ancora prima di leggere i dettagli.
«Se ci sarà da soffrì, almeno soffro a Milano,» annunciò a sua madre, tirando fuori la valigia di sempre — la stessa che, per abitudine, conservava ancora un sacchetto di tè inglese e un biglietto della metro londinese. Come se non si potesse mai davvero tornare indietro, solo ripartire.
Milano la accolse con un cielo bianco-grigio, il treno pieno e la sensazione inconfondibile che tutto si muovesse più veloce, più deciso, più lontano da Napoli. Il lavoro, sorprendentemente, filava. Ritmi intensi, certo, ma Rosa si sentiva in moto, viva. Ogni tanto si fermava a guardarsi intorno come chi non ha ancora deciso se è arrivato o solo di passaggio.
Il problema — ovviamente — era dove dormire.
Cassina de’ Pecchi: la periferia delle occasioni sbagliate
Dopo qualche notte in un B&B dalle pareti color ghiaccio (letteralmente: l’aria condizionata non si spegneva mai), trovò una stanza in affitto a Cassina de’ Pecchi.
“A soli 20 minuti da Milano”, diceva l’annuncio.
Si rivelarono quaranta. Cinquanta se pioveva. Sessanta se c’era lo sciopero dei mezzi, cioè quasi sempre.
Il proprietario della casa? Un uomo magro e pallido, con gli occhi sempre un po’ troppo spalancati, come se avesse appena visto un fantasma — o fosse lui il fantasma. Appariva senza preavviso, come in una sit-com sbagliata.
— «Mi serve la mia giacca.»
— «Cerco il trapano. Quello verde. No, aspetta… il blu.»
— (un giorno) «Scusa, volevo solo salutare il martello.»
All’inizio Rosa rise. Poi chiuse la porta a chiave. Poi mise una sedia sotto la maniglia.
Quando una mattina si svegliò con il corpo coperto di puntini rossi e un prurito furioso, capì che non era stress.
Cimici da letto.
Fece le valigie nel tempo record di tredici minuti e si trasferì. O meglio: si mise a cercare dove trasferirsi, perché Milano, come sempre, non faceva sconti. Fu un duro colpo per lei: dovette restare a casa dal lavoro per cercare una sistemazione, per lavare tutto, per disinfettare ogni cosa, per calmare il panico e i brividi. All’inizio pensava fosse una reazione allergica, ma le macchie non mentivano.
Furono giorni difficili, eppure — paradossalmente — che Rosa ricorda con una certa dolcezza. C’era questo collega, Luca, gentile e premuroso, con un’aria distratta e occhi buoni. Si era offerto, senza secondi fini, di aiutarla a spalmare la crema sulla schiena, e lei aveva accettato con gratitudine.
Non c’era malizia, solo cura. Eppure, tra loro, cominciò una bella amicizia. Una di quelle solide, costruite su risate rubate alla pausa pranzo e confidenze condivise sul marciapiede, con i sacchetti della spesa in mano.
Il problema era che Rosa, senza volerlo, riusciva sempre a farlo arrabbiare. Con il suo sarcasmo, con la sua ostinazione, con quella testarda voglia di farcela da sola. E lui, che era paziente ma non immune, ogni tanto si ritirava. Non per orgoglio, ma per respirare. Per lasciarle spazio. Perché capiva che in lei c’era qualcosa che ancora fuggiva — e che nessuno poteva afferrare per forza.
E così, mentre le punture guarivano e le valigie cambiavano indirizzo, Rosa capì che forse non era solo Cassina de’ Pecchi a rispondere male. Forse, a volte, era lei a non voler ascoltare davvero.
Ma quella è un’altra storia.
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