Sul ciglio del burrone – La forza di non arrendersi
“Ogni riferimento a persone, cose o fatti realmente esistenti o accaduti è puramente casuale.”
Erano trascorsi quasi due mesi da quel pomeriggio di settembre, e Alessandro camminava piano lungo un sentiero sterrato poco fuori dal paese, il freddo dell’aria tagliente che gli arrossava il volto, ma che, stranamente, lo faceva sentire più vivo. Era un sabato di metà novembre, e il cielo si stava già tingendo di quel grigio cupo che anticipa il tramonto troppo presto.
Ogni passo nel fango era come un pensiero in più da mettere in ordine.
Non era ancora riuscito a razionalizzare del tutto quello che gli era accaduto. E forse non ci sarebbe mai riuscito. Certe cose, a ben vedere, non si capiscono: si attraversano. C’era stato un tempo — neanche troppo lontano — in cui credeva che l’amore, quello vero, potesse bastare a tenere insieme due anime anche nei momenti più duri. Ora, invece, si trovava a raccogliere i pezzi di un’esistenza che sembrava essersi sbriciolata sotto il peso delle scelte, delle rinunce, dei sacrifici non detti.
La mente correva spesso a quel periodo buio. Era difficile anche solo parlarne, perché descrivere quel tipo di vuoto sembrava sempre riduttivo. Aveva dato tutto, credendo che bastasse. Aveva rinunciato a un lavoro, a una stabilità che non era solo economica, ma anche identitaria. Lo aveva fatto per amore, sì. E lo aveva fatto con convinzione. Non voleva lasciare sola Aurora, voleva proteggerla, preservarla da tutto, anche dai giudizi meschini di chi, a volte, sa essere più crudele degli eventi stessi.
Nessuno sapeva davvero quanto aveva sofferto. Lo avevano visto sorridere, magari con un filo d’ironia, mentre dentro crollava un intero universo. C’era stato un momento — non più di un mese fa — in cui si era sentito completamente nudo di fronte alla vita. Nulla più da perdere, nulla da trattenere. Solo un senso di smarrimento così profondo che persino respirare sembrava un atto contro natura.
Eppure, non si era lasciato andare. Non del tutto.
Aveva avuto la fortuna — o forse la grazia — di non possedere vizi, né fughe facili. Il dolore, lo aveva vissuto in faccia. Senz’anestesia. E quella sofferenza l’aveva spinto in un luogo che da tempo non frequentava: il silenzio sacro di una chiesa.
Quel giorno di metà novembre era entrato quasi per istinto. Negli ultimi anni si era un po’ smarrito, è vero, ma aveva comunque conservato la fede, che continuava a manifestare con piccole preghiere quotidiane. Non era più solito frequentare i luoghi di culto con regolarità, eppure sentiva, nel cuore, un bisogno diverso.
Si trovava li per altre ragioni, e passò nei pressi di un luogo che, un tempo, era stato molto speciale per lui: il Santuario. Decise di entrare — anzi, ne sentì il bisogno profondo, quasi urgente — un bisogno di essere visto, ascoltato, accolto. Si avvicinò al confessionale e, non appena si liberò, vi entrò. Quella piccola figura all’interno, quel sacerdote dagli occhi stanchi ma gentili, sembrava l’unico in grado di sostenere la sua fragilità senza giudicarla.
In preda alla disperazione esclamò: “Che amico sono, se mi ricordo di Dio solo quando sto male?”
La risposta lo aveva attraversato come una carezza: “Dio è quell’amico che è sempre lì, pronto ad aspettarti.”
Lì, su quelle assi consumate della chiesa, Alessandro aveva pianto. Senza vergogna, senza trattenere nulla. Pianto per la vita, per Aurora, per tutte le cose che aveva perso e per quelle che ancora sperava di salvare. Non era stato un miracolo. Non ci fu alcuna luce abbagliante, nessuna voce dall’alto. Solo un piccolo scatto dentro di lui. Come un filo che torna a tendersi, piano, dopo essere stato sul punto di spezzarsi.
Da quel momento, qualcosa cambiò.
Nei giorni successivi iniziò a svegliarsi presto. Decise di andare a correre, di mangiare meglio. Ogni gesto era un piccolo atto di resistenza. Ogni giorno, una vittoria. Portò a termine il progetto che aveva iniziato prima dell’estate: un lavoro indipendente in cui aveva messo tutto se stesso. Un’idea nata dalla sua stessa caduta. Niente a che fare con una grande startup, per carità. Ma era qualcosa che aveva un’anima. La sua.
Nonostante tutto, non riusciva a provare odio per Aurora. Non gli era mai appartenuto il rancore. Certo, la rabbia, quella sì, l’aveva sentita. Ma più con la vita che con lei. Lei… era ancora nei suoi pensieri, spesso. Aveva provato ad allontanarla, a non cercare il suo sguardo tra la folla, ma era inutile. Certe presenze non le scavi via dal cuore. Non così facilmente.
L’amava ancora? Forse sì. Ma era un amore diverso, più consapevole. Non più legato all’illusione della perfezione, ma alla realtà delle fragilità condivise. Era pronto a perdonarla. Ma soprattutto, era pronto a perdonare se stesso per tutto ciò che non aveva saputo salvare.
Con l’inizio del nuovo anno, Alessandro si guardava allo specchio e si riconosceva di nuovo. Non era lo stesso uomo di prima, no. Ma forse era un uomo migliore. Più vero. Più integro, nonostante le crepe.
E quella domanda che tornava, ogni tanto, come un sussurro: “Cosa dovevo imparare da tutto questo?”
Forse che l’amore non è possesso, ma dono. Che la vita non va come la programmi, ma come sai accoglierla. Che anche sul ciglio del burrone, si può scegliere. E lui aveva scelto la vita. Scelto di restare. Scelto di continuare.
E in fondo, non arrendersi era stato il suo più grande atto d’amore.
La canzone che ti suggerisco di ascoltare per questo capitolo è:
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