Il giorno della verità
“Ogni riferimento a persone, cose o fatti realmente esistenti o accaduti è puramente casuale.”
Dopo aver fatto in mille pezzi il bigliettino, come per essersi liberato da un peso, si chiuse nel bagno.
Non c’era rabbia nei gesti di Alessandro, né fretta. Solo un bisogno urgente e profondo di lasciare indietro tutto ciò che non serviva più. Tutto ciò che era stato scritto nel dubbio, nella paura, nel tempo in cui ancora non sapeva chi volesse essere davvero accanto a lei.
Aprì la doccia, girò la manopola fino al limite del freddo. L’acqua esplose sulle sue spalle come una sferzata. Gli mozzò il respiro, gli fece stringere le mani contro le piastrelle. Ma rimase lì. Immobile. Gli occhi chiusi. I denti serrati. Ogni goccia era come una scheggia di consapevolezza che gli scorreva sulla pelle, lungo la schiena.
Era un battesimo. Un addio a ciò che era stato. E un saluto a quello che stava per diventare.
Uscì dalla doccia ancora tremante, ma più saldo. Non pensava più a cosa dire. Solo a esserci. Indossò una maglietta leggera, quasi a voler sentire l’aria direttamente sulla pelle. Scelse scarpe leggere, senza far rumore. Si guardò appena allo specchio. Non cercava conferme. Solo il coraggio.
Quando uscì di casa, il sole era già alto e violento, ma lui camminava come se fosse immerso in un inverno personale. Il caldo lo avvolgeva, gli faceva sudare la fronte e la schiena, ma non se ne accorgeva. Ogni passo era un pensiero, ogni isolato una domanda:
“E se non volesse vedermi? E se fosse davvero finita?”
I marciapiedi si srotolavano davanti a lui come un vecchio vinile che conosceva a memoria, ma ogni nota oggi sembrava diversa. Più nitida. Più urgente.
Arrivò davanti al palazzo. Lo stesso che aveva visto quella sera, quando lei aveva indicato la finestra e aveva riso: «Quella con le tende bianche. È lì che sogno.»
Ora la finestra era chiusa. Tende abbassate. Nessun suono. Nessun segno. Si passò una mano in testa, quasi a cercare una risposta nella memoria. Poi allungò il dito e suonò il citofono.
Una volta.
Due.
Niente.
Suonò ancora. Un’altra. Ancora.
Poi si arrese. O forse no. Si appoggiò al muro. Respirava piano, come chi cerca di non far rumore nemmeno col cuore. Ed è proprio allora che il portone si aprì. E Alessandro salì. Senza fretta. Con il cuore che gli batteva come la prima volta che aveva ballato la bachata, senza sapere se fosse stato all’altezza. Perché forse l’amore è proprio questo: non sapere se cadrai…
e fare comunque un passo avanti.
Lei non rispose subito. Il silenzio si fece spesso, carico. Qualcosa vibrava nell’aria come una corda tesa da troppo. Poi fece un passo indietro. Aprì la porta del tutto.
Non disse “entra”. Non disse niente.
Si voltò e lo lasciò entrare. Come a dire:
“Se vuoi davvero, se è vero, vieni.
Ma non per tornare indietro. Per andare avanti.”
Lei era li. Capelli raccolti in modo disordinato, una maglia larga, lo sguardo stanco ma acceso. Lo guardò. Senza parole. Senza filtri. Come si guarda qualcosa che si pensava perduto, e che invece è lì, reale. Ma ancora non sai se abbracciarlo o fuggire.
Lui non distolse gli occhi. La voce gli uscì chiara, anche se bassa.
«Non ti sto cercando per spiegare. Non ho scuse. Nemmeno giustificazioni. Ma ho fatto in mille pezzi quel biglietto maledetto. Non perché tu me lo abbia chiesto. Ma perché ora so cosa voglio.»

Maricel abbassò lo sguardo, un attimo. Poi lo rialzò, dritto nei suoi occhi.
«E cosa vuoi?»
«Te.
Te, non un’idea.
Te, non un ricordo.
Te, ora.
Te, che mi fai sentire vivo, anche quando fa male.»
La canzone che ti suggerisco di ascoltare per questo capitolo è:
Lascia un commento